Daniela
aveva 34 anni , qualche giorno fa si è tolta la vita. Era infermiera presso la
terapia intensiva dell’Ospedale San Gerardo di Monza. Prima di lei un’altra
infermiera di 49 anni si è suicidata in provincia di Venezia, anche lei con
esperienza in reparti con pazienti affetti da COVID19. Forse hanno contribuito
al tragico gesto, l’angoscia e la paura di essere state contagiate, forse le
due operatrici hanno ceduto alla fatica fisica e mentale che erano costrette a sostenere
ogni giorno per affrontare, con scarsi mezzi di protezione il virus assassino.
Forse le ha spaventate la consapevolezza di non poter più contare sul fine
turno per tornare a casa, mentre indaffarate, con la mascherina attaccata al
viso sudato e irritato dal sale, correvano avanti e indietro per il reparto,
senza neanche il tempo di andare al bagno. Due
suicidi che non sembrano giustificati da motivi personali ma probabilmente
provocati dal quel male oscuro
denominato Burnout. Vi è omertà e scarsa letteratura in merito. A maggio
2019 l'Organizzazione Mondiale della
Sanità ha sdoganato il Burnout considerandolo ufficialmente una sindrome,
specificando che è un fenomeno da stress da lavoro, per il quale si può tentare
una cura ma non è una condizione medica. Esaurimento, crollo psicofisico,
spossamento, sensazioni di negatività, diminuzione del rendimento, soprattutto
in quelle cosiddette professioni di aiuto tipo medici e infermieri, operatori che
in questa guerra contro il COVID19, sono un esercito male armato e in sotto
numero, con oltre 7000 contagiati. Le
due infermiere, se emergeranno riscontri, sono da considerare decedute per servizio.
Il contesto assistenziale nel quale lavoravano
è denominata Area Critica, vi fanno parte i reparti di terapia intensiva, rianimazione
e chirurgia d’urgenza. All’interno di queste
strutture le infezioni ospedaliere provocano, con o senza COVID19, migliaia di decessi ogni anno. La
mortalità causata negli ospedali italiani dalle infezioni nosocomiali nel 2016
ha registrato 49.301 decessi. L'Italia
conta il 30% di tutte le morti per sepsi nei 28 Paesi Ue, nel nostro paese la
possibilità di contrarre infezioni più o meno gravi durante un ricovero
ospedaliero è del 6%, con 530 mila casi all'anno, il dato è stato reso pubblico
dal Rapporto Osservasalute 2018
presentato il 15 maggio 2019 a
Roma. Dal 2003 al 2016, il tasso di
mortalità per infezioni contratte in ospedale è raddoppiato sia per gli uomini
che per le donne, soprattutto per i pazienti dai 75 anni in su, con tassi più elevati nel
Centro e nel Nord e valori più bassi nelle regioni meridionali.
Circa l’80% delle infezioni ospedaliere
riguardano il tratto urinario, le ferite chirurgiche, l’apparato respiratorio, le
infezioni sistemiche, le polmoniti. L’uso
intenso di antibiotici e di cateterismi vascolari hanno di fatto favorito
infezioni soprattutto nei pazienti di area critica. Fino a qualche decennio fa
le infezioni ospedaliere erano in gran parte imputabili a batteri gram-negativi,
come E. coli e Klebsiella pneumoniae in seguito, per
il forte utilizzo di antibiotici e del maggiore utilizzo di presidi
sanitari con componenti in plastica, sono aumentate le infezioni sostenute da
gram-positivi, Enterococchi e Stafilococcus epidermidis, e infezioni
da miceti, come la Candida, mentre sono diminuite quelle sostenute da
gram-negativi. Nelle terapie intensive e nelle rianimazioni i pazienti vengono
spesso aggrediti dai batteri del genere Pseudomonas e Pseudomonas
aeruginosa, questi batteri sono presenti in tutti i continenti, nel
terreno e nell’acqua, prediligono gli
ambienti umidi, come i servizi igienici o le piscine non disinfettate a dovere,
sono stati rilevati anche sotto le ascelle o nelle parti intime di soggetti apparentemente
sani. Insomma sono batteri che proliferano in mancanza di una adeguata igiene e
che possono infettare sangue,
ossa, orecchie, occhi, vie urinarie, valvole cardiache, polmoni e ferite chirurgiche.
Alcuni dispositivi medici, come i cateteri vescicali o venosi o le cannule endotracheali,
se non attentamente gestiti, con medicamenti sterili e sostituzioni periodiche,
possono diventare veicoli di infezioni. Le infezioni correlate all’assistenza
(ICA), sono una complicanza frequente dell’assistenza sanitaria e
socio-sanitaria e comportano costi elevati di vite umane e di spesa per il
servizio sanitario nazionale.
La sorveglianza delle ICA, è uno strumento
essenziale per monitorare il trend epidemiologico, indispensabile per
coadiuvare gli interventi di prevenzione
nell’assistenza del paziente ospedalizzato. Una circolare del 1985, la n°
52/85, dispone che in ogni presidio ospedaliero venga istituita una Commissione
tecnica responsabile della lotta contro le Infezioni ospedaliere. Nell’attuale
emergenza sanitaria, scatenata dal COVID19, sono state evidenziate diverse
criticità negli Ospedali Pubblici e privati, dovute spesso alla scarsità di
presidi elementari indispensabili per tutelare la salute dei pazienti e degli
operatori. Inoltre cosa non da poco, manca un numero adeguato di personale
formato all’emergenza. Non tutti i laureati in scienze infermieristiche hanno
frequentato, durante il corso, le rianimazioni o le terapie intensive e il
personale in servizio, in molte aziende sanitarie, non sempre è sottoposto al
regime di mobilità interna periodica, utile per acquisire competenze
infermieristiche in altri settori assistenziali. Ciò ha inibito in parte,
nonostante il senso di abnegazione dimostrato dal personale paramedico, la velocità
operativa in corsia contro l’aggressività del COVID19. L’uso degli
aspiratori, la conoscenza di utilizzo dei ventilatori meccanici, la
manutenzione degli accessi venosi centrali (CVC), la manutenzione e il
posizionamento delle maschere N.I.V. , richiedono una formazione
infermieristica che non si può improvvisare, ma che va programmata per tempo. Per
quanto riguarda la prevenzione delle infezioni nosocomiali, la normativa impone al personale medico, infermieristico e OSS, in servizio nei reparti
di terapia intensiva e di rianimazione, la immediata sostituzione dopo ogni
singolo contatto paziente-operatore, del camice monouso, della mascherina e dei
guanti.
L’emergenza COVID19 ha evidenziato, per settimane, carenze di approvvigionamento
e di disponibilità di materiale monouso, sia nelle farmacie interne agli
ospedali che nelle ASL, carenze che hanno esposto a rischio infettivo pazienti
e operatori sanitari e che si stanno manifestando tragicamente a distanza di
tempo, ne sono la prova i 51 medici morti sul campo dell’assistenza di base . La
cifra dei decessi, 969 nelle sole 24 ore tra il 27e il 28 marzo, in gran parte pazienti
adulti già afflitti da altre patologie e anziani, conferma che il COVID19,
uccide prevalentemente soggetti a rischio, come cardiopatici, diabetici cronici
e post chirurgici critici, dunque quando il Ministero della Salute e la
Protezione Civile riferiscono che una parte delle vittime sono decedute “con il Coronavirus e non da Coronavirus” non
è del tutto sbagliato. Come non è del tutto sbagliato, ma resta una
ipotesi, sospettare che forse durante
l’emergenza da “mancanza presidi” le infezioni nosocomiali, abbiano avuto un
ruolo nefasto durante la prima fase della pandemia.
Antonio
Alfano
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